Perché non me ne frega niente del Presidente della Repubblica

I bororo sono una tribù indigena del Sud America, più precisamente del Brasile. Vivono in villaggi concentrici: al centro la Casa degli Uomini (baitemmannageo), un ambiente adibito al consumo di tabacco, all’organizzazione, al bivacco, ai pasti (degli uomini), ecc. Uno spazio che funge sia da tempio che da luogo di ritrovo informale. Disposte in maniera equidistante dalla Casa degli Uomini, si trovano invece le capanne più piccole, destinate alle donne – alle quali è proibito l’accesso nella Casa degli Uomini – e più in generale alle famiglie quando gli uomini non svolgono alcuna attività presso la loro Casa. Terminate le loro attività, siano esse di utilità collettiva che di mera ricreazione, gli uomini tornano nelle loro rispettive capanne disposte circolarmente e formanti la circonferenza del villaggio stesso. 

Tale ordine concentrico è a sua volta complicato da altri elementi, come la disposizione del villaggio rispetto al fiume ad esso adiacente. Il fiume che scorre accanto al villaggio di Kejara, per esempio,  ne determina una divisione in due metà, una metà Nord più vicina al fiume, e una metà Sud. I bororo distinguono tra i cera, gli abitanti della metà Nord, e i tugaré, quelli del Sud. Un uomo può sposare una donna della metà opposta a quella d’origine: un cera prenderà moglie presso i tugaré e viceversa. Ma c’è di più. Il villaggio non è solo diviso secondo un asse orizzontale, ma anche secondo un asse verticale: si tratta del senso di marcia, dello scorrere, che va da Est verso Ovest. Questa distinzione Est-Ovest non corrisponde solo allo scorrere del Rio Vermelho, a settentrione del villaggio, ma anche alla distinzione tra le due metà del villaggio di coloro che muoiono. Ebbene sì, per i bororo anche le anime dei morti vivono in un villaggio “spirituale” segmentato secondo linee analoghe. Un villaggio nel villaggio, potremmo dire. Nel modo di trattare i defunti e il tema della morte, i bororo confermano infatti la loro predilezione per la simmetria. Essa si rispecchia nel principio di giustizia che regola il rito funebre. Infatti, per i bororo, quando qualcuno muore, la natura contrae un debito nei confronti della società. Civiltà e natura sono così regni che possono entrare in rapporti del tipo debitore-creditore. Per questo motivo, i riti funebri prevedono l’organizzazione di una battuta di caccia “compensativa” in cui una bestia (solitamente un grande felino) viene uccisa e scuoiata, e le cui parti – pelle, denti, artigli – sono poste sul corpo del defunto. 

Ma la fascinazione per la simmetria, per il riequilibrio dell’ordine, ecc. non finisce qui. La simmetria la si ritrova persino nelle danze funebri rituali, danze che consistono in due quadriglie di uomini che corrono gli uni verso gli altri, scambiandosi di posto, per poi includere anche le donne le quali, inframmezzate alla danza in corso, la trasformano in una sorta di tarantella circolare. 

Fin qui, tutto sembra ricordare semplicemente l’ennesimo e inveterato stereotipo del “buon selvaggio”, se non fosse che, a rompere le uova nel paniere c’è un commento che ci lascia Lévi-Strauss, testimone diretto della vita bororo nel 1935. 

Nel suo diario di viaggio nel Sud America, Tristi Tropici, dopo aver raccontato non senza una certa dovizia di dettagli etnografici i riti funebri dei bororo, nonché le loro credenze sui morti e il modo di disporre di questi ultimi, l’antropologo francese sintetizza senza troppi ambagi che ciò che fanno i bororo nei loro riti funebri rappresenta perfettamente come una società prende in giro sé stessa. Infatti, dietro tutta questa simmetria, questo gioco di mutualità e di equilibri perfetti, i riti servono ad occultare, ciclicamente e ritualmente, le differenze e le incongruenze gerarchiche e sociali della società bororo, ovvero l’arbitrarietà ingiustificata della divisione dei ruoli. Infatti, quello che ho omesso volutamente nella sintesi precedente è che, in realtà, dietro tutta questa passione per le “simmetrie”, i bororo sono divisi in clan i quali sono a loro volta suddivisi in caste: casta superiore, media e inferiore. Non esiste solo un ordine simmetrico, ma anche uno asimmetrico, ben più cogente rispetto al primo: un membro di una metà della casta superiore può sposare soltanto un membro dell’altra metà della casta superiore. Lo stesso vale per la casta media e per quella inferiore. Dietro il gioco degli scambi a specchio, alle quadriglie, alle disposizioni equidistanti ecc., esiste una realtà ben diversa e contraddittoria rispetto alla prima. A che servono i riti funebri e la loro meticolosa organizzazione? L’antropologo ce lo dice senza mezzi termini: è come quando noi raccontiamo ai nostri bambini la storia di Babbo Natale che porta i regali. Il rito funebre serve ai bororo a far dimenticare, mistificandola, la realtà “asimmetrica” nella quale vivono nei loro concreti rapporti sociali (uno su tutti quello tra uomini e donne). In quello che è forse uno dei suoi passaggi più “militanti”, Lévi-Strauss dirà: «I bororo hanno un bell’ostentare i loro sistemi in una vana prosopopea: come già altri, del resto, essi non sono riusciti a smentire questa verità: la rappresentazione che una società fa dei rapporti fra vivi e morti si riduce a una sforzo per nascondere, abbellire e giustificare, sul piano del pensiero religioso, le relazioni reali che prevalgono fra i vivi» (C. Lévi-Strauss, Tristi Tropici, il Saggiatore, Milano, 2015, p. 204). 

Cosa c’entra tutto questo con il post-Mattarella e l’elezione del nuovo presidente della Repubblica italiana? Molto, perché sembra che il dispositivo mistificante dei riti funebri bororo abbia trovato una controparte “civilizzata” nella trasbordante fanfara con la quale si sta accompagnando l’elezione del nuovo presidente. I modi e i toni che i media mainstream adoperano per narrarla sono paragonabili a quelli di un Conclave, con tanto di lessico ad accompagnare tale equiparazione: “fumata nera”, “fumata bianca”. Non si tratta del papa ma siamo lì. Una (quasi) “vana prosopopea” – per utilizzare le parole di Lévi-Strauss – con la quale la società racconta sé stessa nella sua pretesa ufficialità. E non è un caso se, come il papa, anche l’elezione del presidente è accompagnata da quel tipico “animismo geopolitico” secondo il quale a tale evento corrisponderebbe un cambio epocale in una direzione o in un’altra.

Benaltrismo? Non proprio. La presunta capacità, da parte di un presidente della Repubblica, di far incanalare il corso degli eventi in un senso o in un altro non sarà mai paragonabile alla brusca accelerazione delle disuguaglianze impressa e catalizzata dal governo di Mario Draghi. Ma mentre quest’ultimo è un “tecnico”, la sua controparte animista, il presidente della Repubblica, possederebbe sì, un potere di nocchiero collettivo della nazione. E la fanfara con la quale si sta accompagnando l’elezione del neo-presidente è paragonabile soltanto al silenzio assordante che ha accompagnato l’evento-Draghi, il vero sogno erotico di qualsiasi capitalista: mettere un banchiere e amico delle lobby del sistema bancario ombra nel posto di presidente del consiglio. 

Perché per capire Draghi dobbiamo guardare ai gestori di capitale come BlackRock, Vanguard, ecc., i quali, se potessero, privatizzerebbero pure l’aria che respiriamo (ci stanno provando in altri paesi, e con timidi successi parziali, privatizzando le pensioni!). Draghi, per dirne una, è amico stretto di Laurence Fink, detto ‘Larry’, presidente del più grande e avido gestore di capitali mondiali ‘BlackRock’, per l’appunto. E la chiassosa elezione del nuovo presidente della Repubblica avviene in un contesto ormai compiutamente post-democratico, per usare l’espressione di Colin Crouch (C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, 2000). E tale contesto è stato soltanto esacerbato dalla pandemia, che ha redistribuito potere e ricchezza ancora di più verso l’alto. Sempre Crouch, in un saggio successivo, scrive del resto: «Siamo di fronte a un processo di rafforzamento reciproco del potere economico e politico: a una spirale che consente ai più ricchi, grazie a fortissimi incrementi di ricchezza, d’influire sulle politiche pubbliche, ottenendo risultati politici in linea con i loro interessi, e arricchendosi così ulteriormente» (C. Crouch, Combattere la postdemocrazia, Laterza,  Bari-Roma, 2020, p. 25). 

Che dire del disastro sociale dei licenziamenti a tappeto, fatti nottetempo via Whatsapp? Della bocciatura del bonus psicologo, perpetrata sempre di recente, ed in barba ad una collettività di giovani (e non) che annaspa nel disorientamento più totale? Delle delocalizzazioni e dell’autarchia totale con la quale Draghi vorrebbe liquidare le richieste dei lavoratori da esse coinvolti (vedi il caso GKN)? Dell’ecologia al plutonio radioattivo della finta transizione ecologica? 

La lista è lunga, e l’ufficialità adombrante dell’elezione del presidente della Repubblica mi fa pensare che la differenza tra noi e i bororo è solo di grado, non di tipo.


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