#Accelerate psychoanalysis

L’idea è semplice. Tutti i cittadini che hanno compiuto il diciottesimo anno d’età, sono tenuti a seguire un percorso di psicoterapia individuale o di gruppo per almeno tre anni. L’onorario dello psicoterapeuta è pagato all’80% dallo Stato e il restante 20% (ma si potrebbe fare anche 90-10%) da un contributo del cittadino stesso, oppure una sua quota forfettaria fissa. Il percorso durerebbe tre anni con sedute più frequenti, dalle due alle tre a settimana, per poi diminuirne la frequenza per un altro anno o due (3+1 o 3+2). I cittadini possono poi proseguire il percorso ma, in questa eventualità, completamente a spese proprie. Alla fine di tutto ciò ottieni una specie di Psi-pass che ti permette essenzialmente di vivere in mezzo agli altri esseri umani (scherzo! Ma non del tutto…).
Come sono arrivato a questa idea? Dal problema dei riti di passaggio.
Un tempo la nostra cultura codificava i riti di passaggio in due eventi divenuti oggi tanto inattuali quanto francamente discutibili. Se eri maschio la società aveva deciso per te che, per entrare nel consorzio degli adulti, ti toccava passare dal servizio militare. Per converso, a una donna veniva imposto il rito di passaggio della maternità. In questo contesto altamente edipico, il maschio diventava uomo passando attraverso il tritacarne di una paternità iperfetata alla quale era costretto a sottoporsi: l’ordine gerarchico, il nonnismo, nonché la sopportazione di uno stato di svilente subordinazione erano funzionali a far sì che passasse dall’adolescenza all’età adulta imparando a controllare e ad avere padronanza della propria aggressività. La femmina diventava donna attraverso un altrettanto monotono e vincolante percorso che la riduceva essenzialmente a una delle sue funzioni biologiche, la capacità di generare. Già qui, peraltro, si manifesta una certa arbitrarietà culturale, nella misura in cui, per esempio, anche l’evento biologico delle mestruazioni potrebbe sancire il passaggio all’età adulta, tuttavia queste non sono considerate sufficienti da sole a significare il passaggio ma ne costituiscano soltanto una precondizione. C’è bisogno, infatti, di un quid di volontà: la capacità biologica dev’essere accompagnata dalla scelta, maturata ad un certo punto, di voler diventare madre. Inutile dire che questa scelta in alcuni casi veniva più “subita” che “agita”, ma anche in questo sfortunato caso, la cultura si è saputa armare di una panoplia di stratagemmi verbali e simbolici per far ingollare alla povera malcapitata l’amara pillola e farle accettare il passaggio come un destino ineluttabile.
Oggi, in una società che non a torto viene definita post-edipica, queste due modalità hanno lasciato il posto ad altri riti di passaggio. I riti di passaggio si sono moltiplicati, si sono fatti più individuali, sono reiterati nel tempo, e sono molteplici nelle tipologie. Farsi un tatuaggio, un piercing, tagliarsi i capelli, fare un viaggio, comprare la moto, laurearsi, ecc. sono tutti eventi papabili di diventare potenziali riti di passaggio. Ma anche un semplice evento mentale (quando si dice “mi è scattato qualcosa”) può rappresentare un rito di passaggio. I riti di passaggio sono semplicemente la punteggiatura che la vita dà a sé stessa. In generale, utilizzando un termine chiave della psicanalisi lacaniana, si può dire che un rito di passaggio è una x qualsiasi che riesce a svolgere la funzione di taglio. Nel suo celebre studio etnologico sui riti di passaggio, Van Gennep, fa l’esempio del tagliarsi i capelli, letteralmente: si tagliano i capelli ad un neonato per indicare che il piccolo sta entrando nel mondo degli esseri umani; in alcune culture le donne si tagliano i capelli prima di sposarsi (Van Gennep, Les Rites De Passage, 1981, A. et J. Picard, pp. 169 e ss). Il taglio dei capelli è anche quello che, quasi “ritualmente” veniva fatto all’ingresso del servizio militare, anche alle nostre latitudini. Nel suo libro sul significato dei capelli nell’inconscio, Charles Berg sottolinea proprio il nesso tra tagliarsi i capelli, castrazione simbolica e presa di controllo della propria aggressività (C. Berg, The Unconscious Significance of Hair, Allen & Unwin, 1951, Londra). E che dire del taglio di capelli “rituale” che si fa quando si è elaborato un lutto o quando ci si lascia? Il taglio, in tutte le sue molteplici istanze, è un gesto che si lega sia al tema del “passaggio” che a quello della presa/riassunzione del controllo, contrassegno di una aumentata maturità.
“Un rito di passaggio è una x qualsiasi che riesce a svolgere la funzione di taglio.”
Naturalmente, i micro-riti individuali di passaggio sussistono sempre, come in passato, accanto ai tipi più vistosi e socialmente codificati come lo sposarsi, generare un figlio, o l’intraprendere un lavoro in un’istituzione cameratesca. Tuttavia, è sotto agli occhi di tutti la preponderanza che hanno assunto, nell’economia psichica di ciascuno, i micro- rispetto ai macro-riti.
Che cos’è una psicoterapia? In generale, quando una persona finisce sul lettino dell’analista o intraprende un qualsiasi percorso genericamente psi, lo fa perché sente una forte necessità personale a sganciarsi da alcune ripetizioni dalle quali sembra essere controllata. Ma questo è soltanto il lato soggettivo del malessere. La realtà del malessere del singolo è un ologramma delle contraddizioni del suo contesto famigliare. E la famiglia o il nucleo dei caregivers è a sua volta un ologramma delle contraddizioni economiche che, a loro volta, sono il risultato della mega-macchina del potere costituito, che le mantiene nonostante la loro contraddittorietà.
Il nevrotico delira l’inconscio della sua famiglia (‘famiglia’ in un’accezione larga di ‘contesto dei caregivers’), che a sua volta è una pantomima del discorso sociale nel quale è innestata. Quello che vedo oggi è una generalizzazione dell’esigenza ‘psi’, e per ovvie ragioni che riguardano la precarietà e le difficoltà di seguire il diktat della soggettività neoliberale. In assenza di un movimento autenticamente rivoluzionario, che necessita di tempi di organizzazione lunghi e travagliati, quello che vedo è però, giocoforza, una individualizzazione endemica della sofferenza psichica. In questo, benché la teoria psicanalitica contribuisca largamente alla critica ideologica, nella pratica sembra sempre dividere la popolazione in due: una maggioranza di sofferenti che “non sanno cosa fanno” e una minoranza di analizzati dall’opinione illuminata. La cosa paradossale è che spesso essa ci azzecca. Lasciando a margine per un attimo la questione sull’efficacia dei vari approcci psi, si può sicuramente dire che nella stragrande maggioranza dei casi, il soggetto arriva, non tanto ad una “guarigione”, ché di nevrosi non si guarisce, ma ad una acquisita contezza delle proprie strutture e dei propri fantasmi. Tale consapevolezza permette una paradossale integrazione nel contesto riproduttivo della società: «Il soggetto è di solito diviso tra il replicare e il non replicare la struttura economica e l’ideologia dominante», scrivono Parker e Pavón-Cuéllar (I. Parker, D. Pavón-Cuéllar, Psicanalisi e rivoluzione, ombre corte, 2021, Verona, p. 78). Ma su tale scelta la psicanalisi (e ancora di più tutti altri approcci), rimane giustamente interdetta. Essa può soltanto dirti: siamo tutti rotti, però adesso grazie al percorso che hai intrapreso, saprai come sei rotto tu.
“Il nevrotico delira l’inconscio della sua famiglia, che a sua volta è una pantomima del discorso sociale nel quale è innestata.”
L’idea di un percorso di psicoterapia esteso, garantito a tutti, senza oneri eccessivi e obbligatorio, permetterebbe di prendere due piccioni con una fava: assolverebbe alla funzione di passaggio che ricoprivano i vecchi macro-riti e al contempo permetterebbe di superare l’élitarismo da me descritto. Diventerebbe un percorso civile in cui la collettività si prende cura della collettività.
Oggi le sofferenze individuali che tutti ci portiamo vengono quasi sempre riversate sull’altro, intellettualizzate in identificazioni tossiche, o agganciate ai fantasmi collettivi che circolano attraverso i social (machismo, fascismo, maschilismi e femminismi tossici) che finiscono solo per autoalimentarle perché ne posticipano l’analisi indefinitamente. Il potenziale disgregativo di queste strutture e sofferenze individuali si palesa sempre di più, oggi, in una guerra tra i sessi senza quartiere, in cui ognuno diventa semplicemente il supporto per le proiezioni dell’altro. E non parliamo dei passaggi all’atto che risultano da questa babelica confusione: i giochini di potere, le micro-vendette e i risentimenti che sfociano in acting-out scevri da qualsiasi riflessione.
“Oggi le sofferenze individuali vengono quasi sempre riversate sull’altro.”
Al di là dei miei possibili detrattori appartenenti al settore psi-, nonché delle facili quanto scontate accuse di “distopismo orwelliano”, controllo sociale, e – quasi sicuramente – di psicanalisi col carrarmato, penso che una proposta del genere in realtà ha perfettamente senso nella congiuntura attuale, congiuntura nella quale il malessere psicologico si è cronicizzato e generallizato. Non solo, tutto ciò permetterebbe anche e finalmente di sganciare la psicanalisi da una pretesa di emancipazione collettiva che, allo stato dell’arte, non può purtroppo ricoprire, pur tratteggiandone alcuni elementi teorici importanti. Accelerando la cura-psi in questo modo si libererebbe forse per davvero uno spazio post-individualista e sociale in cui modificare collettivamente gli assetti sociali che ci siamo dati.
Magari non si chiamerebbe più neanche “psicoterapia” ma “protocollo rieducativo del cittadino” e verrebbe organizzato in gulag divisi in base al tipo di disturbo in questione…