Palermo 2077

È il 2077. Siamo a Palermo, Italia. La popolazione della città si distingue grossomodo in due categorie di cittadini: un manipolo di anziani i quali ritirano mensilmente una pensione risicata, bastevole a malapena per i viveri di prima necessità – ma si sa, i vecchi si saziano con poco! -, e una maggioranza di giovani abbandonati totalmente a loro stessi, senza lavoro e tagliati fuori dalle logiche che governano l’1% più ricco del pianeta. Ci sono anche altre categorie, ma questi due gruppi, i giovani diseredati e gli sparuti anziani, costituiscono il grosso della composizione demografica.

Nonostante la temperatura media di 42° e la scomparsa dell’inverno, ridottosi ormai ad una timida settimana tra dicembre e gennaio, la piccola comunità degli anziani e quella dei giovani diseredati continuano ad abitare la non più ridente città di Palermo.  Del resto, dove possono andare? 

Ogni 15 del mese si ripete lo stesso rito. L’anziano Giovannino va allo sportello a prelevare i suoi spiccioli della pensione. Nel prenderli, ne conserva una parte nel suo portafoglio. La parte rimanente, invece, dovrà darla a Giuseppe, il giovane che nel frattempo avrà fatto capolino dietro di lui con la sua piccola moto elettrica (involontariamente green!). Vedete, tra le due comunità, gli anziani e i disgraziati, si è creato un tacito patto: gli anziani prendono la loro pensioncina ridicola, e ai giovani è concesso una sorta di “scippo” compensativo. L’accordo è: mangiamo poco ma mangiamo tutti. E così si crea un ecosistema perfetto: disgraziati da un lato e disgraziati dall’altro hanno creato spontaneamente una sinergia grazie alla quale gli anziani non hanno troppe rogne, e i giovani riescono ad arrancare. Giovannino tende la sua mano rugosa verso Giuseppe, mollando la parcella dello scippo rituale. È un cosmo perfetto. Le autorità chiudono un occhio. Sembra Blade Runner: neon e digitalizzazione accanto a uno stato di emergenza continuo, aria irrespirabile, prezzi dell’acqua alle stelle. La tendenza storica verso la privatizzazione dei servizi rimase imbattuta, e così le autorità locali devono chiudere spesso un occhio e convivere con l’idea che buona parte dei cittadini usino vie traverse per procurarsi il necessario, bypassando le istituzioni e i canali ufficiali. Vinse, in altre parole, il sogno secondo il quale tutto, sicurezza, servizi pubblici, infrastrutture, sanità, tutto «sarebbe stato acquistato sul mercato, senza alcuna rete di salvataggio per chi non fosse stato in grado di pagare» (Q. Slobodian, Il capitalismo della frammentazione, Einaudi, Torino, 2023, p. 121). 

Poche tracce rimangono ormai di un qualche senso di comunità, il quale è stato sostituito invece da ciò che W. Streeck chiamò “sociazione per consumo” (W. Streeck, Come finirà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi, Meltemi, Milano, p. 123). In poche parole, in un contesto di mercato generalizzato le persone esperiscono sempre di più la loro libertà come libertà di scegliere cosa consumare. Le tempeste di sabbia e le ondate di calore hanno reso necessarie misure di coprifuoco regolate dalle autorità centrali. Inoltre, il cosiddetto “stato di emergenza”, che qualche decennio prima veniva dichiarato sporadicamente, si è trasformato nella normalità, tant’è che non viene più neanche nominato, ed è sparito dal lessico quotidiano.

Si badi, però, Palermo può vantare meraviglie uniche, antiche e recenti. I turisti arrivano, mangiano la loro aragosta piena di tossine, ma il selfie con l’aragosta è un must! L’aria è irrespirabile, ma possiamo vantare il molo trapezoidale, avveniristico ormeggio cum fontane colorate che fa dimenticare a tutti ogni problema: siamo a Dubai! E infatti possiamo parlare di dubaificazione: creiamo una vetrina accattivante (che funziona male) mentre le contraddizioni sociali continuano ad amplificarsi, e mentre la ricchezza continua a redistribuirsi verso l’alto. 

Ancora agli inizi del XXI secolo c’era chi fantasticava di una tendenza storica verso l’omogenizzazione degli spazi. Ma ciò che si realizzava era invece una progressiva ri-frammentazione della società. In questo, Palermo seguì il destino generale di quello che Slobodian chiamò Il capitalismo della frammentazione (2023), venendo così a far parte delle città che si sono dovute mettere alacremente e in modo buffamente mimetico in vetrina per attirare capitali. 

COF COF! *colpo di tosse*

Scusate, ho tossito perché ho i polmoni totalmente intasati dalla sabbia e, per di più, la CO2 non aiuta. A proposito, per la CO2 dobbiamo ringraziare, in ordine cronologico, i petrolieri di Exxon & Co. (visto che già negli anni ’70 del secolo scorso sapevano tutto ciò a cui saremmo andati incontro, ne parlo qui) e poi a seguire tutti i negazionisti del cambiamento climatico, non da ultimo, in Italia, il signor M. Salvini, il quale, negli anni venti del XXI secolo continuava a rassicurare tutti dicendo che il surriscaldamento globale non fosse altro che un “fenomeno ciclico” sic et simpliciter, in barba anche a tutta la comunità scientifica mondiale (!) e all’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, che confermava invece quanto i magnati del carbon fossile sapessero già da tempo, ovvero che il cambiamento climatico fosse causato dall’attività umana.

Comunque, non è mica tutto brutto, si badi. A Palermo abbiamo avuto anche il nostro momento di gloria: un ricchissimo e subitaneo slancio in avanti nel consumismo turistico (D. Harvey, La fine del neoliberismo, link articolo).

Aeroporti, hotel, investimenti infrastrutturali, ecc. Purtroppo, però, dopo l’ubriacatura arriva anche la nausea. E infatti anche qui abbiamo registrato lo stesso pattern di altre città, un grande contraccolpo di disoccupazione e fallimento generalizzati senza precedenti che ha accompagnato il consumismo turistico. Però siamo stati bravi, negli anni che furono, ad imitare il modello Atene. Lì, per esempio, il vecchio aeroporto di Elliniko venne riconvertito alacremente e grazie a investimenti esteri in hotel costieri, centri commerciali e moli, anche non trapezoidali (A. Clapp, Two Faces of Athens, in “New Left Review”, 2018, 114, p. 94). Non fu proprio una gioia per tutti, visto che molti ateniesi vennero sfrattati in massa dal centro della città per far spazio alla “sharing economy” (che sembra però molto più “economy” che “sharing”, visto che non si condivide nulla ma anzi si sottolineano le partizioni sociali già esistenti). 

Comunque qui a Palermo siamo riusciti anche noi nell’impresa, almeno per quanto è durata. Siamo stati anche bravi a non ascoltare quanti sottolineavano che questo modello di turistificazione di una città non sia sostenibile a livello ambientale. In quegli anni, del resto, fu impossibile destare l’attenzione della popolazione. Cocktails, abbronzatura e balli di gruppo in spiaggia a marzo e ad aprile, l’odore dell’estate e la granita… Era difficile far passare l’idea che tutto ciò fosse in realtà un inferno di luce anomalo, la manifestazione locale di un processo macroscopico per il quale non eravamo preparati. 

Palermo è un ologramma della contemporaneità: è una parte del tutto ma che contiene e manifesta in piccolo le proprietà del tutto globale nel quale siamo. Rappresenta lo stato del mondo nella sua interezza: da un lato una spinta acefala e automatica alla modernizzazione a tutti i costi, che però ovviamente viene soltanto imitata pallidamente perché l’inerzia è dominante. Dall’altro lato la desertificazione, concreta e anche simbolica. Desertificazione concreta perché la siccità e le ondate di calore ci avvicinano sempre di più a scenari à-la Dune; desertificazione simbolica perché l’unica strategia che inerzialmente stiamo adottando è quella di imbellettare la città e renderla accattivante. Si badi, ovviamente sempre sotto l’auspicio teorico (largamente fallace anche ormai sul piano empirico) della teoria dello sgocciolamento, ovvero: se crei un picco di ricchezza in un punto del tessuto sociale, esso percola automaticamente nelle periferie. E invece questa ennesima baggianata venduta dai liberali con l’alitosi e l’alloro in testa nella realtà non avviene mai. 

Ma non solo una città può rispecchiare olograficamente il tutto globale nel quale si trova. Seguendo una suggestione dello psicanalista Didier Anzieu, mi rendo conto sempre di più che non esiste rappresentazione che non sia al contempo rappresentazione di una realtà esterna e di una realtà interna. Il deserto è un modo di sentire noi stessi, una Stimmung epocale. Viviamo quotidianamente il deserto nella misura in cui siamo lenti, affaticati anche senza aver fatto nulla, disorientati (dove stiamo andando? si arriva da qualche parte?). E come una città contemporanea, alberga in noi non solo il deserto, ma anche il suo paradossale contrario: un dispositivo di silicio sempre attivo, che ci iperstimola, ci tiene collegati alle richieste dell’epoca. Quale sintesi è possibile tra queste due velocità?

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