È il potere ad essere insostenibile

Avrei voluto fare il mirmecologo, lo studioso delle formiche. Mi affascinano da sempre e, in certi momenti, le ho trovate anche più interessanti delle comunità umane. Certamente i loro schemi e le loro strutture sono più semplici e sono determinate da fattori molto vincolanti di tipo biochimico. Ma ciò non toglie nulla alla loro bellezza. 

Sono insetti sociali, e questa socialità è proprio la cifra del loro successo globale: sono una specie egemonica; se vogliamo, sono la specie più autenticamente “globale” su questa terra. Il successo di queste grandi mega-macchine dipende da alcuni elementi chiave: gli adulti si prendono cura dei giovani, due o più generazioni di adulti convivono nello stesso nido, i membri di ciascuna colonia sono divisi in una casta «reale» riproduttiva e in una casta «operaia» sterile (Hölldobler, Wilson, Formiche. Storia di un’esplorazione scientifica, Adelphi, Milano, 1997, p. 27). 

La divisione dei ruoli è abbastanza netta: la regina ha il monopolio riproduttivo, le operaie sono spesso sterili e hanno funzioni sia di procacciamento che militari. La gerarchia, benché non sia frutto di un modello politico pensato ed elaborato a tavolino, ha una ratio intrinseca molto semplice: alla regina si tributa il suo ruolo solo fintantoché essa svolge in cambio la funzione di riproduttrice della specie. C’è un “patto” implicito: sei regina solo perché riproduci la specie e noi abbiamo giudicato il tuo patrimonio genetico worth protecting (meritevole di protezione), per così dire.

La divisione netta dei ruoli non è mai in realtà sinonimo di rigidità e assenza di capacità di adattamento. Tutt’altro. C’è un genere di formica, tra i miei preferiti (si chiama Amblyopone australis) nella quale può accadere che manchi la regina. In questa eventualità, viene stabilita una vera e propria dittatura del proletariato. Infatti, in questo caso, gran parte delle formiche operaie acquisisce capacità riproduttiva. Si forma nel loro corpo un vacuolo che può ospitare lo sperma: praticamente acquisiscono un grembo che le rende operaie-spose (poliginiche). Infatti sono state chiamate formiche “gamergate”, dal greco gámos e ergátēs (sposato e lavoratore). 

Andiamo a noialtri, gli esseri umani. Pure noi abbiamo delle gerarchie e una divisione funzionale dei ruoli. Anzi, è ormai stato ampiamente confermato da diversi studi che quanto più aumenta la cattura energetica di una società, ovvero le risorse che deve consumare per riprodurre sé stessa, tanto più essa moltiplica le funzioni e i livelli gerarchici che le servono per mantenersi (si veda B. Fix, Rethinking Economic Growth Theory From a Biophysical Perspective, Springer, 2015). E non solo, tutto ciò vale anche in senso inverso. Quanto più aumentano e si complessificano le gerarchie, tanto più esse necessitano di utilizzare una sempre maggior quota di energia per giustificare la necessità del loro potere: in altre parole, parte delle risorse viene utilizzata per costruire quelli che Althusser chiamava “apparati ideologici di Stato” (Bichler S., Nitzan J., ‘Growing Through Sabotage. Energizing Hierarchical Power’, in Review of Capital as Power, Vol. 1, No. 5, pp. 1-78). Ma ci sono delle differenze. La distinzione dei ruoli tra le formiche è giustificata da un rigido do ut des tra i diversi gruppi, noi invece siamo arrivati ad una fase in cui i nostri “proprietari assenteisti” (absentee owners, per come li chiamava l’economista Thorstein Veblen), non hanno quasi più nulla da proporre per giustificare il livello di sperequazione e distinguo funzionali cui siamo arrivati (non che prima avessero ottime ragioni!). Anzi, spesso non hanno proprio alcuna idea di come vivano le “formiche operaie”, non hanno alcuna contezza della materialità del mondo e, nella stragrande maggioranza dei casi, le élites finanziarie hanno a cuore solo dividendi e rendimenti a brevissimo termine (da cui la loro golosità per i licenziamenti in massa, le fusioni aziendali, ecc.). 

Anni fa, un team multidisciplinare di scienziati ha sviluppato un modello grazie al quale simulare il rapporto tra umani e natura. Si chiamava HANDY (Human and Nature Dynamics) e permetteva di simulare i “destini” di diversi tipologie di società rispetto ai loro modi di consumare le risorse naturali. Venivano cambiati i parametri generali: uguaglianza vs elitarismo, grandi consumi vs frugalità, e si vedeva cosa succedeva. 

Ebbene, lo scenario più catastrofico che HANDY ha mostrato è proprio quello che più si avvicina alla forma della nostra società attuale: una società disuguale dove le élites si appropriano della ricchezza a scapito di una maggioranza di lavoratori precari e sottopagati. Ciò che il modello permise di cogliere è però un dettaglio non di poco conto: «A un basso tasso di consumo globale, come ci si potrebbe aspettare, la casta delle élite inizia a crescere e si appropria di una grande quantità di risorse a spese dei commoner. Questi ultimi, indeboliti dalla miseria e dalla fame, non sono più in grado di fornire abbastanza forza lavoro per mantenere in piedi le società, causandone così il declino» (Servigne, Stevens, Convivere con la catastrofe, Treccani, p.147). Il punto non è quindi il consumo delle risorse, ma il consumo delle persone. Ad essere insostenibile non è il rapporto con la natura, ma in primo luogo i rapporti di potere. Il rischio di collasso aumenta quanto più forte è la stratificazione sociale. Sono le disuguaglianze ad essere diventate insostenibili.

Peraltro, è proprio l’élite ad essere temporalmente l’ultima ad accorgersi della nave che affonda, perché ne vede per ultima i segni visibili. 

2 risposte a “È il potere ad essere insostenibile”

  1. Volevo provare ad aggiungere un mio punto di vista sul parallelismo/contrasto tra la nostra società e quella che può essere l’organizzazione negli insetti sociali (in questo caso formiche).

    La questione è sicuramente più complessa di come andrò a descriverla, anche solo per il semplice fatto che diverse specie possono avere caratteristiche genetiche-sociali-comportamentali differenti.
    In ogni caso, in genere, in ogni colonia le operaie sono sterili ed hanno lo stesso corredo genetico della regina. Le differenze nel fenotipo derivano da modiche epigenetiche. Non vi sono quindi differenze nella sequenza del DNA in sé, ma alcune molecole interagiscono in diverse regioni del DNA regolandone l’espressione.

    Questo comporta che, per le operaie, che siano loro a riprodursi o che sia la regina “non fa differenza” alla luce del fine ultimo della vita che, per come le regole biologiche insegnano, è la diffusione del proprio corredo cromosomico. L’evoluzione ha voluto che venisse premiata un’organizzazione sociale di tipo cooperativo, piuttosto che antagonistico (una formica da sola può fare ben poco). Per cui ogni colonia può essere percepita come un super-organismo; si potrebbe dire anzi che, per la colonia, non rappresenta una differenza che sia una formica operaia o la regina a riprodursi.

    Il ‘do ut des’ come lo immaginiamo noi, che richiama fondamentalmente il ‘patto sociale’, non è del tutto applicabile, non c’è uno scambio di favori. Le operarie come la regina lavorano ugualmente (in modo differente) per uno stesso obbiettivo. Le gerarchie sono fittizie e al massimo le aggiunge l’uomo quando si ritrova a descrivere queste società. Ma questo funziona perché non ci sono ‘interessi individuali’.

    Una società umana che volesse ispirarsi a questo modello dovrebbe essere capace di percepirsi come super-organismo appunto. Ogni individuo dovrebbe cioè essere capace di esperire un tipo di altruismo nei confronti dei membri della propria specie che vada al di là di eventuali desideri di sopraffazione individualistica. L’obbiettivo intrinseco dovrebbe essere il benessere dell’intera specie.

    Questa roba che suona un po’ smielata in realtà ha un significato evolutivo, logistico se vogliamo, importante se si pensa che, alla resa dei conti, i problemi sempre più seri che ci ritroveremo a dover affrontare derivano essenzialmente dall’incapacità dei singoli di pensare, percepirsi ed agire nell’interesse della specie.
    Ed è correlato anche al fatto che recentemente ci sono sempre più persone che non vogliono procreare (come le formiche sterili), perché hanno cominciato a ragionare ‘a livello di specie’ (ovviamente non mi riferisco a tutti quelli che per problemi di insicurezza economica decidono di non figliare, ma a chi ha iniziato a percepire la sovrappopolazione, le disuguaglianze socioeconomiche, la crisi climatico-ambientale ecc… come un fatto personale).

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    • Sono d’accordo e ti ringrazio delle precisazioni! Il ‘do ut des’ al quale mi riferisco è ovviamente metaforico, non cerco di “antropomorfizzarle”. Mi riferivo piuttosto al fatto che, anche nel caso del genere da me preso ad esempio, se le formiche “giudicano” la madre-operaia alfa non adatta, perché debole o altro, la declassano a favore di un’altra. Si tratta chiaramente di dinamiche del tutto regolate e semi-automatiche, naturalmente. Bello il parallelo tra formiche sterili e persone “volontariamente” infertili! Grazie!

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